Cos’è la vita? Anzi… La vita esiste? No, non è una dissertazione filosofica come quella socratica sulla “non-esistenza” del tempo, ma una dissertazione di carattere scientifico che fornisce l’oggetto di discussione per l’ultima puntata prima della pausa natalizia. L’argomento nasce in seguito appunto ad una dissertazione, apparsa su Scientific American e riproposta poi suLe Scienzea firma di Ferris Jabrgiornalista scientifico firma più volte di Scientific American.Nel corso dell’articolo Jabr sviluppa un ragionamentoche mostra come sia impossibile giungere ad una definizione soddisfacente di vita.

Ora, prima di dire qualsiasi cosa è bene sottolineare che , ad oggi, la Scienza non sa come sia comparsa la vita (chi eventualmente sapesse indicare invece come farebbe bene ad andare di corsa ad incassare il premio da uno milione di dollari USA messo in palio dalla OLF (Origin-of-Life Foundation),ma questa rimane un vero e proprio mistero. Orientativamente si può ragionare sul fatto che ci sono solo alcune possibilità:

La vita è comparsa, sulla Terra o altrove, per leggi naturali, attraverso una successione di aggregazioni e trasformazioni chimiche, a partire da semplici composti organici (“abiogenesi”)

La vita è comparsa “per caso”, come risultato di un sistema di “caos deterministico” secondo il quale esisterebbero tanti processi, tante variabili “autonome” (eventualmente anche non conoscibili) che possono aleatoriamente interagire fra loro innescando processi evolutivi


Il problema della vita è indecidibile Niels Bohr(ma anche altri daMonodaMayr) per esempio, giudicava “la vita consistente con la fisica e la chimica, ma da esse indecidibile” e che “l’esistenza della vita deve essere considerata come un fatto elementare (un assioma) che non può essere spiegato, ma che può solo essere preso come un punto di partenza in biologia” (“Light and Life”, Nature, 1933)).

Però, queste possibilitàche possiamo individuare a livello per così dire logico fanno riferimento ad un altro problema a monte, quello, assai complicato, della definizione dell’oggetto di studio. Ovvero, cos’è la vita? Come la definiamo? Jabr prova a fare un excursus, una sintesi su come la Scienza, ma anche la filosofia(parte infatti addirittura dai filosofi greci) ha provato a rispondere, senza successo, a questo interrogativo. Si può provare a vedere allora come si è cercato di rispondere alla domanda, dove si arrivati e cosa c’è dietro la conclusione di Jabr, a cui Pennetta ha dedicato questo articol sul CS. Tutte le proposte, comunque sia, sono a loro volta riconducibili a due approcci al problema:

1)Definire la vita come un qualcosa definibile attraverso caratteristiche proprie dei viventi.

2)Definire la vita come un processo definibile attraverso caratteristiche proprie dei viventi o, eventualmente, del processo stesso.

3) Definire la vita cercando di definire una eventuale “scintilla Frankesteiniana” che separerebbe un qualcosa di non vivo da uno vivo (Mark Bedau che si occupa proprio di filosofia della biologia sostiene che “l’evoluzione non è soltanto una proprietà della vita. E’ ciò che spiega perché esistono tutte le altre proprietà. E’ l’essenza, la causa prima“).

Bisogna anche opportunamente precisare che alla vita non si oppone la morte (che è una caratteristica che riscontriamo nei viventi) ma la non-vita. Appare evidente che cercando di fare il percorso inverso arrivando a definire vita partendo dalla morte ci si riconduce al problema originario.

Secondo il Vocabolario Garzanti, un po’ in linea anche con l’Oxford Dictionary e un po’ in linea con i vari vocabolari ed enciclopedie, la vita è “Lo stato di attività naturale di un organismo che mette in moto e coordina le funzioni inerenti alla sua conservazione, sviluppo e riproduzione e alle sue relazioni con l’ambiente e gli altri organismi“.

Ovvero si cerca di definire vivo ciò che rientra nel “cerchio della vita”, quindi nascere, crescere, riprodursi, morire. Questo sia come singolo vivente che come vita intesa come processo .

Sì, ma di tutte queste attività quali sono quelle che permettono di dire che si stia osservando qualcosa di vivo o che rientri nel processo “Vita”? Un po’ come dire che se è vivo ciò che mangia, si muove e produce delle escrezioni, allora poiché lo fa anche la nostra automobile, questa è da considerarsi viva… Oppure che se è la capacità di moltiplicarsi, allora anche i cristalli sono vivi, ma non tutto quanto è sterile, come i muli.

A provare a far luce su questa attività principale ci pensarono due  cosmologi, John Barrow e Frank Tipler  nel loro libro “Il Principio antropico”, per i quali tutte le argomentazioni dei biologi & co. fallivano proprio per il grado di ambiguità insito in ciò che si tenta di definire. Ma se tutti gli organismi viventi che conosciamo sono metazoi, ovvero animali costituiti dall’aggregazione di diverse cellule che cooperano tra loro per dar luogo a una forma di vita e se queste singole cellule hanno tutte la capacità di riprodursi spontaneamente e di riparare, quindi, eventuali danni della struttura cellulare di cui fanno parte, allora su queste basi si può costruire la definizione di vita. Ovvero ogni animale, ogni pianta parte da una o due cellule che duplicandosi si differenziano andando a formare tessuti e organi specializzati. L’incapacità di riparare i danni della propria struttura porterebbe un vivente a non vivere abbastanza a lungo da essere riconosciuto come tale.  Un problema che nasce a questo punto è però, come accennato sopra che  la capacità di riprodurre una copia di se stessi è essenziale, ma non è una condizione sufficiente. La differenza tra cellule che si autoriproducono e cristalli che apparentemente fanno la stessa cosa è data dall’informazione che nei primi è soggetta a selezione naturale, mentre nei secondi si propaga senza dovere affrontare una “lotta per la sopravvivenza“. Ma allora perché non andare a parare su questo? È ciò che avvenne. Un biologo dell’evoluzione, citato spesso da Fratus, Carl Woese  rispose che “semplicemente è viva un’entità che riesce a fare una copia di sé utilizzando dei componenti che sono tutti molto più elementari ”.Se non che, accettandola per buona, perfino un computer potrebbe pretendere il diritto di essere considerato vivo se fosse progettato per costruire e prendersi cura, senza alcun aiuto esterno, di una copia di sé. Ma, essendo che il primo della serie di questi robot dovrebbe comunque essere costruito da ingegneri umani, lo stesso Woese allora corregge il suo pensiero affermando che “la storia evolutiva dovrà avere una parte importante in qualunque definizione di vita che sia veramente applicabile“. Ed è su queste basi che arriva la definizione più illuminante dell’intreccio tra ideologia ed interessi economici, che si nasconde spesso dietro la tecno-scienza, la definizione di Carl Sagan: “La vita è un sistema capace di evoluzione attraverso la selezione naturale” (alla voce “Life” dell’Enciclopedia Britannica, 1970), o meglio, come spunto per il ragionamento di Jabr, la versione adottata dalla NASA per indagare su eventuali forme di vita aliene ovvero: “Un sistema in grado di autosostentarsi capace di evoluzione darwiniana”. Come dire che  la vita è quella cosa che si spiega con la teoria di Darwin, ma allora, se è così, con questa definizione chi può osare di esprimere un piccolo dubbio sul darwinismo senza passar per matto? Eppure questa è una definizione circolare. Ed è il solito ricorrere all’onnipotente neodarwinismo quando si presenta un problema del genere. L’abbiamo visto in riferimento a  ’evoluzione’ ed in riferimento a ‘specie’ con la definizione filogenetica ad esempio etc. etc..

Eppure descrivere un fenomeno vorrebbe dire fornire una frase (il più possibile concisa, e comunque completa), così da individuare le qualità peculiari e distintive, sia con l’indicarne l’appartenenza a determinate specie, generi, classi, ecc., sia col rilevarne funzioni, relazioni, usi, ecc.” (Enciclopedia Treccani). Ma con quella non-definizione non viene fornita nessun carattere peculiare. Una soluzione migliore allora sarebbe da considerarsi quella proposta da Mayr (1988), che comunque è un fautore, come detto prima, dell’indecidibilità. Lui sostenne l’evidenza che nel mondo inanimato non sia mai stata osservata una sequenza di reazioni chimico-fisiche guidata da un programma d’istruzioni crittate in un dato codice, portandolo a proporre come criterio di separazione tra organismi viventi e non, con maggiore plausibilità scientifica di Sagan (e NASA), l’esistenza o assenza d’un genoma e d’un codice genetico. Su questo si apre il problema comunque del codice. Quel codice che per molti neodarwinismi è sì un sistema molecolare di codificazione efficiente, ma ridondante, pieno di sequenze egoiste e autoreferenziali, ”chiaramente” frutto di tentativi ed errori, di rimaneggiamenti e riorganizzazioni, di un’esplorazione stocastica, senza alcuna corrispondenza lineare fra le dimensioni del codice e le complessità degli organismi che ne derivano. Pessimo come software che come progetto intelligente.

Ed è qui che ci si riconduce alle conclusioni di Jabr. A proposito della definizione della NASA fa l’esempio dei virus , che hanno complicato più di ogni altra entità la ricerca di una definizione di vita. I virus sono essenzialmente filamenti di DNA o RNA impacchettati in un involucro proteico, non hanno cellule o un metabolismo, ma hanno i geni e possono evolvere, vengono definiti entità biologiche, nanomacchine biologiche etc. etc… Se per essere un “sistema in grado di autosostentarsi” un organismo deve contenere tutte le informazioni necessarie per riprodursi ed essere sottoposto all’evoluzione darwiniana, allora, per questo vincolo, i virus non soddisfano la definizione. Infatti  per fare copie di sé stesso un virus deve invadere e conquistare una cellula. Ma del resto che i virus come le cellule del sangue, i ribosomi etc.. non vengano considerate forme di vita non suscita poi scalpore. Quindi sembrerebbe anche filare tutto quanto liscio, almeno in questo senso. Però con i vermi intestinali ed altri organismi già  la cosa diviene più spinosa, molti storcono il naso  ed a quel punto Jabr non può che constatare che la definizione della NASA non può risolvere simili ambiguità al pari delle altre definizioni (oltre al fatto che come detto non è neanche una vera definizione). Inoltre Jabr spiega che definire così la vita (sistema in grado di autosostentarsi capace di evoluzione darwiniana) ci costringe anche ad ammettere che alcuni programmi per computer sono vivi (codificano tratti, evolvono, competono tra loro per riprodursi e si scambiano anche informazioni etc..). Ed è così che si giunge alla conclusione inevitabile spingendo all’estremo il paradigma neodarwiniano. Dopo il multiverso, la litopanspermia, improbabili esseri mezzi scimmia-mezzi maiali arriva la conclusione per cui la vita è un concetto inventato dall’uomo. Certo in merito della fede (come in una visione giudaico-cristiana ad esempio), di un particolare credo (come può esserlo la new age), o di una qualche speculazione filosofica, il problema ‘vita’ è possibile che  non crei tutte queste difficoltà. Per alcuni si potrà dividere soddisfacentemente in animati e animati, per altri anche il sasso, la Terra stessa vivono e via così.

Ma in scienza? Jabr mostra che, dei tre approcci elencati, i primi due ,oltre a non produrre nulla, in fondo si riconducono al terzo e che questo non può avere soluzione. Infatti è l’uomo che ha fissato un  arbitrario livello di complessità e dichiarato che tutto ciò che è al di sopra di quel confine è vivo, e tutto ciò che è al di sotto non lo è. Ma non esiste una soglia passata la quale un insieme di atomi diventa improvvisamente vivo, non c’è alcuna distinzione categorica tra i viventi e non viventi, nessuna scintilla frankensteiniana. Jabr ha trovato soddisfazione per la sua conclusione tanto che gli è stato detto che la definizione operativa era solo una comodità linguistica e che quanto ha invece lui affermato, cioè che la vita non esista, è perfetto. Alcuni si sono rifugiati nella penuria di campione. È necessario, affermano, trovare forme di vita aliene per comprendere di più sulla vita. Ciò che in realtà emerge da tutto questo, spiega Pennetta, è che per capire l’evoluzione abbiamo bisogno di capire come la vita sia comparsa, e per capire come la vita sia comparsa abbiamo bisogno di capire cosa veramente sia la vita. Pennetta spiega anche che, quel che i biologi contemporanei si ostinano a non vedere, è che per uscire dal vicolo cieco in cui il riduzionismo ha messo la Biologia sarà necessario l’apporto sia della filosofia che della fisica post newtoniana. Perciò la spiegazione dell’organizzazione dei sistemi biologici, cioè di insiemi ordinati di elementi capaci di svolgere funzioni complesse dotate di significato, può passare (può nel senso che non è detto che possa farlo, come già riportato sopra potrebbe essere qualcosa di indecidibile ) solo attraverso il superamento della fisica ottocentesca riduzionistica (pars destruens) e poi (pars construens) per l’innesto di una nuova  scienza delle forme.

Tuttavia, anche considerando la vita un “concetto”, proprio con accezione quasi Platonica, appare evidente che neanche in tal caso si abbia davanti qualcosa di chiaro. Resta infatti un concetto poco chiaro, fumoso, problematico. Insomma rimane un mistero. La filosofia che sta dietro a questi ragionamenti, grossomodo è quella per cui ciò che io non so definire o non comprendo, non esiste.

Ciò che supera le mie capacità di conoscere ed esprimere è una fantasia astratta. Ma del resto Albert Einstein stroncava già questo modo di pensare, così:

“Io non sono un positivista. Il positivismo stabilisce che quanto non può essere osservato non esiste. Questa concezione è scientificamente insostenibile, perché è impossibile fare affermazioni valide su ciò che uno ‘può’ o ‘non può’ osservare. Uno dovrebbe dire: ‘Solo ciò che noi osserviamo esiste’. Il che è ovviamente falso”.

Ma non è tutto, infatti, in trasmissione Fratus e Pennetta discutono anche  sulle ripercussioni a livello antropologico-sociale delle conclusione filo-neodarwiniane di Jabr. Partendo da quelle premesse è possibile fondare un’etica? Cosa succede ai concetti di giusto e sbagliato? Se, guardando alle cose in modo strettamente scientifico, la vita come la concepiamo normalmente non esiste, ma, in un certo senso, è un susseguirsi infinito di combinazioni di atomi in certi modi piuttosto che in altri, come influisce la cosa sull’uomo e sul suo approcciarsi con gli altri uomini, con gli animali e con la natura?

Certamente si possono giustificare in questo modo tutte le varie teorie sull’eugenetica, fino anche ad aborti post-nascita, rispetto ai defunti etc etc.. perché è chiaro che poggiando tutto su qualcosa di fumoso poi tutto quanto diviene molto opinabile.

Cosa potrebbe impedire di “buttare” come un ferrovecchio anziani e malati?

Chi continuasse a ritenere ostinatamente che fra suo figlio, suo fratello, sua madre, sua moglie, il suo compagno e una pietra c’è una differenza sostanziale, ontologica, e incolmabile, chi pensasse che una creatura umana vivente non è che  una mera disposizione di atomi, dovrebbe prendere atto che oggi la mentalità dominante è quella espressa in un aforisma di Nietzsche: “Non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Sempre Nietzsche  che, nel suo “Anticristo”, scrisse “Noi non facciamo più discendere l’uomo dallo spirito, l’abbiamo rimesso tra gli animali”.(vedi Vivisezione: le contraddizioni degli evoluzionisti )

Tutto diviene per forza di cose rivolto al più efficiente, a quello che causa meno problemi al gruppo, ai più, si guarda al più funzionale, un assoluto materialismo dove le ricadute poi possono essere molto spiacevoli per chi perdesse il carro dei vincitori .Inevitabile riagganciarsi ad uno dei pilastri della teoria darwiniana, la teoria Smithiana per cui se ogni individuo persegue il proprio bene poi alla fine ne gioverà la comunità intera. Teoria drammaticamente falsa, che il Nobel Nash, nella teoria dei giochi provò a correggere affermando che sia invece necessario che l’individuo facesse ciò che è meglio per sé in relazione a ciò che è meglio per la comunità. Un po’ un senso di bene comune. Ma come si può pensare di fondare una cosa simile partendo dalle premesse che la vita non esista e che facciamo parte solo di susseguirsi infinito di combinazioni di atomi in certi modi piuttosto che in altri? La scienza moderna sviluppatasi nel corso del Medioevo, trovato i natali in epoca successiva e rafforzatasi in seguito proclamando di essere nata dall’Umanesimo e che poneva l’uomo al centro dell’universo dovrebbe oggi arrivare a dire che fra noi e un sasso in fondo non c’è quella differenza che crediamo, è solo una nostra astrazione mentale.

Ma in fondo, benché venga divulgato che il metodo scientifico e la Scienza moderna nascano in ambito Illuminista ateistico-naturalista, ciò è assolutamente falso, ma questa nacque grazie al cristianesimo, il vero illuminismo che ha esaltato l’uomo, la sua razionalità e ha salvato l’oggettività della realtà da assurde speculazioni sofistiche. Occorre quindi riflettere bene sulle ricadute di simili conclusioni e bisognerebbe forse pensare che di fronte a queste si sia in presenza di qualcosa, come sottolinea Pennetta, di duale alla matematica dimostrazione per assurdo. Per cui si assume temporaneamente un’ipotesi, si giunge ad una conclusione assurda, e quindi si dimostra che l’assunto originale deve essere errato.

Tuttavia in questo caso come in altri si accetta l’assurdo, si dice proprio che queste conclusioni siano “perfette”, il che dice molto…

 

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